Presentazione Libro UFCT ( 11 giugno 2021,Parco Ciani, Lugano)

Innanzitutto, vorrei dire il mio grazie a Luigi per aver scritto questo libro, salvando dall’oblio un secolo di storia al femminile.  

Una storia che fino ad oggi non era mai ancora stata raccontata. Perché queste donne cattoliche ticinesi e anche questo loro effervescente secolo di attività fino ad oggi, mai avevano trovato una ribalta. O incontrato l’attenzione di nessuno.

Vittime -anche loro- di questa rete dalle maglie larghe che trattiene le vicende dei forti e dei vincitori, lasciando scivolare via quelle dei vinti, dei deboli e … molte volte, delle donne.

Tra le tante emozioni e sorprese che questo libro mi ha regalato- ne voglio condividere con voi, due in particolare:

La prima è stata scoprire che un cammino che si è percorso: fatto di scelte,  di riflessioni, di proposte si è trasformato  in materia di studio, e attraverso questo processo, per certi versi, è entrato nella storia ed é diventato storia.

… questo assistere cioè alla trasformazione del “personale” che si fa collettivo -entrando a far parte  in una dimensione e di una narrazione  più vasta …destinata a restare.

Questa è la prima considerazione

La seconda riguarda la scoperta di una storia che ci ha precedute: in qualche modo l’avevamo intuita: ma di cui in sostanza sapevamo ben poco. E solo per grandissime, lacunose linee. E solo relativamente agli ultimi tre, quattro decenni al massimo.
E questo, in alcuni momenti, ha reso un po’ insicuri i nostri passi. Perché non sapevano se agendo come agivamo, tradivamo la nostra storia. O le facevamo imboccare una strada diversa. Forse addirittura estranea…

Avere potuto ora, grazie a questa pubblicazione scoprire questo passato, la narrazione per intero dell’UFCT è stato per noi davvero un regalo. Che ci ha mostrato in maniera chiarissima che la nostra tradizione e il nostro passato non ci consegna alle sagrestie, al banco del dolce o alla pulizia della chiese ( tutti servizi che non disprezziamo e che sono necessari) ma che nel nostro

DNA c’è impegno sociale, volontà di trovare nuovi modi di vivere ed esprimere la fede, desiderio di far sentire la propria voce, di partecipare attivamente alla Chiesa, tante competenze e una discreta capacità profetica,  nel leggere ed interpretare i segni dei tempi.

Non nascondo che quando ho saputo di questo progetto,  per un attimo ho temuto che questo libro potesse diventare ( suo malgrado e non certo per scelta dell’autore)  un necrologio dell’Unione Femminile.

Un bel discorso da leggere al suo funerale e da appoggiare sulla sua tomba. Oggi, con un sospiro di sollievo, posso dire che non è così. Leggendolo ho percepito la forza scaturire dalle sue pagine e soprattutto è emersa quella continuità tra passato e presente,  che da presidente dell’UFCT -oggi nel 2021- mi sprona a continuare sulla strada che da dieci anni a questa parte stiamo percorrendo. Che è quella di partire da noi, da quello che siamo, sentiamo, quindi dal nostro essere donne, per vivere la fede, interrogare le scritture, ma anche il tempo che stiamo vivendo e il nostro modo di vivere la Chiesa e di partecipare alla sua vita. In tanti modi diversi.

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Per arrivare ai giorni nostri e rispondere alla domanda di Luca Saltini, devo partire dalla mia esperienza personale.

Da donna sposata e madre felice, per molti anni mi sono sentita perfettamente a casa nella mia comunità, nella mia parrocchia, direi nella Chiesa universale.

Facevo la catechista, avevo scritto due libri sulla famiglia, e sul Giornale del Popolo tenevo una rubrica dove rispondevo alle lettere dei lettori ( che poi per la maggior parte erano lettrici). E ho cominciato a notare che diverse donne si rivolgevamo a me, per parlarmi dei loro problemi:  principalmente coi figli: convivenze, separazioni, divorzi. Situazioni, che queste madri vivevano malissimo certo per la sofferenza che generavano nei loro figli, ma anche perché le mettevano in conflitto con la chiesa. Come gestire queste situazioni con la loro fede, con il loro accostarsi ai sacramenti?

Mi stupiva soprattutto che sentissero il bisogno di parlarne con me piuttosto che con il prete di riferimento. E’ stata questa un po’ come la prima avvisaglia che c’era qualcosa che mancava. Qualcosa che queste donne non trovano.  Innanzitutto, penso l’ascolto di queste strie e poi l’accoglienza

di questa loro sofferenza. Una sofferenza  che alla fine, per tante,  ha coinciso con l’allontanamento dalla Chiesa.   

Ho iniziato a pormi delle domande. Ma, mi  chiedevo:   che cosa il mio parroco, la chiesa in generale potesse dire a queste donne: non solo alle spose e madri, ma anche a chi non lo era più, non lo era mai stato e semplicemente, si interrogandosi per trovare il proprio posto nel mondo.

E lo stesso travaglio è entrato dentro di me. Dal momento che ho cessato di sentirmi prima di tutto e solamente madre, sono iniziate le sfide. Ho iniziato  ad avvertire un sottile disagio, una perdita di  contatto con una chiesa che sentivo non parlarmi più, in cui non mi sentivo rappresentata e che -mi accorgevo-  non era in grado di parlare alle mie amiche single, divorziate, piene di domande. Col risultato che, una dopo l’altra cessava di frequentare la parrocchia, portando le sue domande – ma anche la sua fede-  altrove . Cercando in altri circoli, altri luoghi, qualcosa che non trovava né nella messa domenicale, né nel dialogo col parroco e neppure nella comunità parrocchiale, avvertita sempre di più come un club esclusivo per persone integre e soprattutto: “regolari”

E un giorno -ricordo che stavo stirando- ho sentito alla radio una trasmissione su un convegno di teologhe che si era tenuto all’eremo di  Camaldoli sul tema “Una chiesa di donne e uomini” e sono come trasecolata: mi si è aperto un mondo di cui mai nessuno mi aveva parlato e che per contro parlava  a me: che raccontava una storia in cui c’ero anch’io: non in virtù dei miei figli ma io come donna. E ho scoperto che la bibbia non solo è piena di volti e di storie di donne ma che nessuna narrazione, nessun omelia, nessun incontro o convengo mi aveva fatto incontrare prima e che forse anche per questo, mi erano state sempre apparse o state presentate come delle comparse. Funzionali ad un'altra narrazione. E non quali figure fondamentali all’interno della Storia della Salvezza per tutti: uomini e donne!

E’ stata una scoperta che mi ha regalato un entusiasmo che non mi ha più abbandonata. E’ stato un filone che mi si è aperto davanti e che mi ha fatto capire che esiste:  una narrazione femminile ed una narrazione maschile. Non solo nella bibbia, non solo nella teologia, non solo nella Chiesa. Ma ovunque. E che per millenni quella maschile ha prevalso e pesato ( e permettetemi di dire che pesa e ancora prevale) in un mondo , come quello

della chiesa, strutturalmente abitato, gestito e concretamente  vissuto da uomini.

E questa è la strada che da dieci anni a questa parte – e arrivo alla fine-  l’Unione femminile ha imboccato. Una strada verso l’auto-consapevolezza e la presa di coscienza -prima di tutto.  Un percorso che sentiamo di voler condividere con gli uomini, percorrere insieme agli uomini. Perché è “nell’insieme” che c’è la pienezza: perché si respira meglio se si utilizzano entrambi i polmoni, si vede meglio ad usare due occhi,  si sta meglio se si cammina fianco a fianco, piuttosto uno dietro l’altro.

Una strada ancora poco praticata, devo dire, e poco conosciuta, o ri-conosciuta, dalle stesse donne. E qui parlo della nostra diocesi. Da un lato le donne consapevoli, quelle che si accorgono di questa invisibilità e che sono stanche di essere sempre solo “sott’intese” o  tacitamente “incluse” nel maschile generalizzato, se ne sono già andate dalla Chiesa. Dall’altro, quelle rimaste si sono allineate sul modello maschile e patriarcale che viene loro proposto e lo hanno fatto diventare loro.  ( donne che parlano e pensano al maschile)

Io sono profondamente grata a tutte le donne che attraverso il libro di Luigi Maffezzoli ho potuto conoscere. E a tutte quelle che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente e che hanno camminato prima di me all’interno di questa storia.
La loro frequentazione mi ha permesso di restare in questa Chiesa che ho scelto, che amo, che sento come casa mia e alla quale voglio partecipare, senza sentirmi -per parafrasare il titolo del libro di Paola Cavallari, - la “costola” di nessuno.

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